Liberiamo i semi! Salviamo futuro del nostro cibo. WeMove lancia una Petizione all’Ufficio europeo dei brevetti (EPO) di adottare misure urgenti per proteggere i beni comuni bloccando il monopolio dei brevetti sui semi.
Per questo motivo, devono impedire qualsiasi appiglio legale presente nell’attuale diritto brevettuale, che permette alle aziende di creare monopoli sull’utilizzo di frutta, verdura e semi. Finché questo non sarà fatto, chiediamo una moratoria sulle applicazioni dei brevetti per le piante coltivate e gli animali allevati in modo convenzionale!
I nostri partner e le voci di oltre 180.000 persone della nostra comunità hanno protestato allo scopo di fermare multinazionali quali la Bayer-Monsanto, Heineken o Carlsberg, nel tentativo di impedir loro di detenere il diritto esclusivo di coltivare frutta, verdura e sementi.
Perché è importante?
I brevetti possono creare dei monopoli: frutta, verdura e semi protetti da brevetti non possono essere utilizzati da altri agricoltori per la coltivazione senza il permesso del proprietario dei brevetti. Ciò significa che una manciata di grandi multinazionali potrebbero ottenere il controllo pressoché totale sulla produzione giornaliera dei nostri alimenti: potranno decidere cosa mangiamo, cosa producono gli agricoltori, cosa vendono i negozi e quanto dobbiamo pagare questi prodotti.
Nessuno dovrebbe avere il diritto esclusivo di coltivare e vendere frutta e verdura. Sembra scontato, ma da oltre quattro anni lottiamo proprio per evitare che questo accada. E abbiamo vinto. L’anno scorso, l’Ufficio Europeo dei Brevetti (EPO) ha ufficialmente dichiarato che le piante coltivate in modo convenzionale non possono essere oggetto di brevetti.
Ma alcune aziende, fra cui Bayer-Monsanto, DowDupont, Heineken e Carlsberg, hanno trovato una scappatoia e rischiano di mandare in fumo la nostra vittoria, grazie ad una serie di appigli legali che permetterebbero loro di registrare nuove brevetti su orzo e meloni.
Quello che stanno tentando di fare è davvero subdolo. Si tratta di un “raggiro tecnico”, ed è in sostanza un modo per sfruttare gli appigli introdotti dall’EPO.
Sono proibiti i brevetti sulle piante coltivate con metodo convenzionale, ma sono ammessi quelli sulla coltivazione tramite ingegneria genetica, inclusi i nuovi metodi come la manipolazione del genoma.
In questo modo le aziende possono tentare di rendere più confusi i confini tra coltivazione convenzionale e ingegneria genetica. In pratica, significa che i semi destinati alla produzione di birra o meloni possono ancora essere definiti un’invenzione.
L’EPO ci ha già ascoltato una volta grazie a un’enorme petizione, all’invio di migliaia di reclami contro un brevetto sui pomodori, e una protesta a Monaco in occasione dell’Oktoberfest, il festival della birra
L’EPO si riunirà di nuovo alla fine di Giugno e il suo direttore è aperto a un dialogo “fruttuoso”. In questo momento stiamo organizzando una nuova azione in vista di questa prossima riunione, per assicurare che il nostro messaggio venga recapitato forte e chiaro: serve prendere una decisione finale per chiudere tutte le scappatoie legali e bloccare una volta per tutte i brevetti sulle sementi!
Sostenibilità negli adolescenti. Museo del Risparmio di Intesa Sanpaolo ha promosso questa ricerca al fine di indagare come i giovanissimi (13-18enni) affrontano il tema della sostenibilità in senso ampio. Si tratta di un approfondimento di natura complementare all’attività educativa del progetto S.A.V.E che il Museo ha disegnato e propone da tre anni insieme al BEI Institute, per sensibilizzare i giovani all’uso consapevole delle risorse finanziarie e ambientali, all’economia circolare e all’inclusione sociale.
Sono state raccolte 400 interviste tramite tecnica CAWI (Computer Assisted Web Interviewing) rivolte ad un campione di 13-18enni rappresentativo dell’universo di riferimento per sesso, singole età anagrafiche e area geografica di residenza.
Il field si è svolto dal 5 al 17 febbraio 2021.
Gli insight di ricerca
1. I giovani italiani mostrano una maturità e un orientamento al futuro sorprendenti e unici
Una generazione che riesce a collegare i principi e convincimenti da una parte e l’agire quotidiano dall’altra.
Questa coerenza etico-mentale si sostiene e rafforza in molti modi:
– L’adesione al tema della sostenibilità è alta, segno di una sensibilità radicata, si potrebbe dire ‘nativa’ per la generazione dei Fridays for future
— Sia quando si tratta di attenzione verso le risorse ambientali
— Sia quando si tratta di gestione del denaro
E si trasforma in impegno individuale, concreto, e comportamenti quotidiani virtuosi.
– I giovani italiani mostrano di pensare in modo nuovo, sostituendo
— Al pensiero tradizionale, lineare, analitico, con l’”io” al centro del discorso
— Un ‘pensiero circolare’, capace di tenere insieme presente passato e futuro, cause effetti e soprattutto fini e implicazioni dell’agire, sostituendo all’”io” il “noi” a cui sentono di appartenere.
Sia il punteggio medio dell’Indice di Consapevolezza Ambientale che quello dell’Indice di Consapevolezza Economica sono pari a 6.7 punti in una scala con range 0-10.
Il 96.1% dei giovani italiani ha sentito parlare del problema del cambiamento climatico. L’impegno in prima persona dei giovani per ridurre lo spreco delle risorse naturali ottiene un punteggio pari a 6.7. La gravità della mancanza di attenzione degli adulti verso le tematiche ambientali è giudicata in un punteggio di 7.9.
L’83.5% dei giovani italiani che ha soldi a propria disposizione dichiara l’abitudine a pensare come usarli. L’85.9% risparmia denaro con una finalità ben precisa (per realizzare un progetto o, secondariamente, per allontanare la paura di diventare povero). La capacità individuale di tenere sotto controllo le spese rimandando quelle non necessarie è pari a 7.1.
Nb: tutti i punteggi medi sono riferiti a una scala con range 0-10
2. Consapevolezza Ambientale e Consapevolezza Economica sono intimamente connesse
Chi ha grande attenzione per le risorse naturali gestisce con uguale cura il denaro.
– Dalla consapevolezza della finitezza – in alcuni casi vera e propria scarsità di risorse -evocata dalle ripetute crisi economiche, lavorative, sociali, climatico-ambientali e ora pure sanitarie, i giovani italiani hanno imparato la responsabilità nell’uso dei beni di cui dispongono.
Il Top quartile dell’Indice di Consapevolezza Ambientale (composto cioè dai più attenti all’ambiente) ottiene 7.8 punti nell’Indice di Consapevolezza Economica e il Top quartile di Consapevolezza Economica (composto cioè dai più attenti alla gestione del denaro) ottiene 7.6 punti nell’Indice di Consapevolezza Ambientale.
Nb: tutti i punteggi medi sono riferiti a una scala con range 0-10
3. Quando si parla di sostenibilità si sfumano le differenze tra ragazze e ragazzi
L’attenzione per l’ambiente e per il denaro è trasversale al genere.
Tuttavia, su altri aspetti l’indagine mostra ancora l’esistenza di condizionamenti e pressioni educative differenti per ragazzi e ragazze. In particolare emerge
– Un vincolo più forte che lega le ragazze agli altri:
— Nella cura (quando si tratta di decidere come spendere il denaro, le ragazze sono meno individualiste dei ragazzi e pensano di più alla felicità degli altri);
— Come riferimento e ispirazione (le ragazze amano di più venire a conoscenza di storie di persone di diverse parti del mondo);
— Ma anche nella dipendenza dal giudizio (le ragazze mostrano minor sicurezza e autostima dei ragazzi).
– Una maggiore autonomia dei ragazzi che si mostrano al contempo più individualisti nelle scelte (ad esempio nell’uso del denaro) e più felici.
Ragazzi e ragazze ottengono rispettivamente 6.8 e 6.9 punti nell’Indice di Consapevolezza Ambientale e 6.9 e 6.9 in quello di Consapevolezza Economica.
Le ragazze hanno un minore tendenza dei ragazzi, 5.3 di punteggio vs 5.6, a usare il denaro pensando solo alla propria felicità. Sentono con maggiore frequenza di valere poco, punteggio di 5.9 vs 4.9 dei ragazzi. Amano le storie sui social che raccontano di persone di diverse parti del mondo, punteggio di 6.9 vs 6.0 dei ragazzi.
I ragazzi sono più felici, hanno infatti un punteggio pari a 7.1 mentre le ragazze si fermano a 6.7.
Nb: tutti i punteggi medi sono riferiti a una scala con range 0-10
4. L’analisi per i tratti di personalità mostra l’esistenza di una relazione positiva tra stabilità caratteriale e attenzione all’ambiente e alla gestione del denaro
Le tre grandi famiglie individuate, gli Inquieti, i Curiosi e i Coscienziosi, si caratterizzano infatti per un’adesione differente ai temi della sostenibilità.
– Coscienziosi e Curiosi sono maggiormente coinvolti nella gestione consapevole delle risorse:
— I Coscienziosi, grazie alla combinazione di fiducia negli altri e diligenza, aspetti che li rendono persone che confidano nelle regole e le rispettano;
— I Curiosi, grazie alla passione verso tutto ciò che è nuovo e diverso e che li rende un segmento ricettivo e aperto al cambiamento.
– Gli Inquieti infine sono i più tiepidi nei confronti della sostenibilità ambientale ed economica.
— Hanno tratti di personalità segnati dalla bassa autostima, dall’isolamento e dalla conflittualità. Fragilità, frustrazione e rabbia alimentano un circolo vizioso che li allontana dalla possibilità di essere protagonisti di una vita sostenibile e consapevole.
I Coscienziosi hanno un Indice di Consapevolezza Ambientale pari a 7.7 e un Indice di Consapevolezza Economica pari a 7.4. Sono quelli che hanno più fiducia nelle persone, con un punteggio medio pari a 6.5 e sono molto diligenti nel portare a termine tutto ciò che iniziano, punteggio medio 8.1.
I Curiosi hanno un Indice di Consapevolezza Ambientale pari a 7.0 e un Indice di Consapevolezza Economica pari a 7.2. Amano imparare cose nuove a lezione, punteggio medio 8.7.
Gli Inquieti hanno un Indice di Consapevolezza Ambientale pari a 6.4 e un Indice di Consapevolezza Economica pari a 6.5. Sentono spesso di non valere molto, punteggio medio pari a 6.5. Molte cose che capitano li fanno arrabbiare, punteggio medio 6.9.
Nb: tutti i punteggi medi sono riferiti a una scala con range 0-10
5. I genitori svolgono ancora un ruolo di primaria importanza per i 13-18enni italiani
Vengono infatti presi a modello da una larghissima maggioranza di ragazzi sia quando si parla di sostenibilità ambientale che di sostenibilità economica.
– Il modello di riferimento familiare è quasi esclusivo per quanto riguarda la consapevolezza economica, perché
— I genitori sono la prima fonte di denaro, cosa che ne rafforza il loro primato educativo;
— Sono spesso l’unico modello esistente, perché fuori dalla famiglia, nel contesto scolastico o relazionale, non si parla abbastanza di impiego del denaro e di educazione economica.
– I genitori rivestono un ruolo altrettanto importante anche se meno esclusivo quando si tratta di sostenibilità ambientale
— Sia perché i ragazzi sono i protagonisti del cambiamento di attenzione verso l’ambiente;
— Sia perché sono più bravi nell’adottare i nuovi comportamenti (fare la raccolta differenziata, prestare attenzione allo spreco di acqua, usare forme di mobilità alternativa, ecc.).
— Sia perché infine la questione ambientale è affrontata ampiamente dai media e nei contesti extra-familiari.
Il 91.2% dei giovani italiani si ispira ai propri genitori per la gestione del denaro. La percentuale sale al 93.2% se si considerano i più attenti alla sostenibilità economica.
L’82.9% dei ragazzi si ispira ai propri genitori per la gestione delle risorse ambientali. La percentuale sale all’85% se si considerano i più attenti alla sostenibilità ambientale.
Ecosistemi sani: 1,2 miliardi posti di lavoro. Investire in attività di rigenerazione della natura si traduce anche in nuovi posti di lavoro con molteplici benefici economici e sociali per le comunità locali. Lo ricorda il WWF in occasione del Primo maggio, Festa dei lavoratori, che anche quest’anno si celebra nel mezzo di una pandemia. Ed è proprio questa condizione, per il WWF, ad aver evidenziato quanto siano vulnerabili i paesi e i sistemi globalizzati agli shock esterni. Distanziamento sociale, blocco di gran parte delle attività economiche, hanno innescato una crisi economica accompagnata da una rapida perdita di lavoro come mai era avvenuto in passato: ma le nostre società e le nostre economie sono profondamente o radicate nella natura, e non esterne ad essa.
I sistemi naturali (costituiti dalla biodiversità presente sul Pianeta) e i servizi che essi offrono gratuitamente e quotidianamente, anche detti servizi ecosistemici, sono,infatti, la base essenziale dei processi economici, dello sviluppo e del benessere delle società umane. I sistemi naturali ricoprono un ruolo centrale anche nel sostenere l’occupazione: circa 1,2 miliardi di posti di lavoro in settori come l’agricoltura, la pesca, la silvicoltura e il turismo dipendono direttamente dalla gestione efficace e dalla resilienza di ecosistemi sani.
Ad esempio, la bassa produttività dell’agricoltura nei paesi in via di sviluppo, in particolare in Africa, è la causa primaria della condizione di povertà estrema caratteristica di alcune regioni. In questi contesti, le soluzioni basate sulla natura, come il ripristino dei bacini idrici, possono aumentare la disponibilità di acqua e ridurre l’erosione del suolo, contribuendo all’aumento della produttività agricola.
Benefici simili si possono trovare nei settori come la pesca e la silvicoltura, dove l’uso di soluzioni basate sulla natura può sostenere, e talvolta incrementare, i posti di lavoro e l’economia delle comunità locali. Secondo uno studio statunitense (Garrett-Peltier and Pollin, 2019) il ripristino e la gestione sostenibile delle foreste avrebbe creato più posti di lavoro per milione di dollari investito rispetto ad altre tipologie di industrie (agricoltura, gas, aviazione ecc.), arrivando a generare 39.7 posti di lavoro diretti ed indiretti per milione investito. Nei paesi in via di sviluppo questi valori risulterebbero più elevati.
Si stima che la Rete Natura 2000 sostenga 104.000 posti di lavoro nelle attività di gestione e conservazione delle aree protette e altri 70.000 posti di lavoro in attività connesse in maniera indiretta. Alla base di questo c’è un investimento annuale e costante di circa 6 miliardi di euro per la gestione e il ripristino della rete Natura 2000.
In futuro, si prevede che il fabbisogno di biodiversità possa generare fino a 500.000 posti di lavoro. Basti considerare il settore agricolo: 1,3 milioni dei 9,6 milioni di posti di lavoro in UE in questo ambito sono collegati direttamente o indirettamente ai siti Natura 2000. Anche il settore del turismo ha un ruolo cruciale, offre lavoro a 12 milioni di persone in Europa, di cui 3,1 milioni sono collegati alle aree della rete Natura 2000.
Gli investimenti in rinaturazione sono definiti anche investimenti moltiplicatori. È stato stimato infatti che investire circa 2,7 trilioni di dollari ogni anno entro il 2030 in soluzioni basate sulla natura genera vantaggi economici pari a 10 trilioni di dollari e 395 milioni di nuovi posti di lavori (World Economic Forum 2020).
Il WWF ha calcolato che il ritorno economico derivante dalla sola ricostruzione degli ecosistemi marini (grazie all’estensione delle aree marine protette dal 20 al 30% e ad interventi sostanziali di ripristino) potrà portare, sempre al 2050, ad un ricavo di 10 dollari per ogni dollaro speso, oltre che ad un incremento di 1 milione di posti di lavoro tra gli operatori del mare.
“Proteggere, ripristinare, gestire in modo sostenibile gli ecosistemi e allo stesso tempo far crescere la nostra economia non è più un’utopia. La risposta è nelle soluzioni basate sulla natura, ovvero gli interventi finalizzati a tutelare, gestire in modo sostenibile e restaurare gli ecosistemi – ha ricordato Marco Galaverni, direttore scientifico del WWF Italia – Le soluzioni basate sulla natura forniscono risposte alle sfide chiave della società, producono benessere per le comunità e benefici per la biodiversità”.
Nonostante questi strumenti siano noti da tempo, il loro valore non è ancora del tutto riconosciuto e rappresentano un’opzione di investimento a basso costo per aumentare i posti di lavoro, la produttività e l’economia locale, oltre alla loro azione primaria di proteggere, conservare e ripristinare il capitale naturale.
Il caso di Zagabria, Croazia – Le soluzioni basate sulla natura per contrastare la disoccupazione
La città di Zagabria ha moltissimi parchi, come Medvednica e Park Maksimir, i quali richiedono risorse e competenze specifiche per essere protetti e conservati. Nel 2005 la città ha lanciato un programma di formazione volto a ridurre la disoccupazione locale contribuendo allo stesso tempo alla conservazione degli spazi verdi rivolto principalmente a persone da anni senza una solida occupazione. L’obiettivo è quello di generare contratti di lavoro a tempo pieno per la cura del verde e la conservazione delle aree protette e, con un percorso formativo, far acquisire ai partecipanti le conoscenze e le competenze necessarie per un nuovo inserimento nel mondo del lavoro.
Dal 2005 al 2015, hanno partecipato al programma oltre 3.000 persone, di cui circa il 30% ha successivamente trovato un’occupazione. Il programma ha contribuito alla riduzione della povertà locale, aumentando la motivazione e la consapevolezza tra i cittadini partecipanti. Circa 300 persone sono state coinvolte nuovamente ogni anno nella manutenzione degli spazi pubblici verdi e in altre attività di gestione ordinaria delle aree protette volte alla protezione della biodiversità, come per esempio la rimozione dei rifiuti smaltiti illegalmente all’interno dei parchi. Questo progetto mostra come l’attenzione, la cura e la conservazione della natura nelle città possa fornire importanti benefici sociali attraverso la sua protezione attiva.
Il caso del Sud Africa – Working for Water
In Sud Africa le specie aliene invasive vegetali stanno causando moltissimi danni: mettono a repentaglio le attività economiche, la biodiversità, la sicurezza dell’acqua e l’integrità del suolo (ILO, 2018). Investendo in soluzioni basate sulla natura, inclusi la gestione ed il ripristino degli habitat con vegetazione autoctona, è possibile generare molteplici vantaggi. Un esempio importante viene da Città del capo, dove il ripristino della vegetazione autoctona ha aumentato la disponibilità d’acqua nei bacini idrografici che riforniscono la città. Questo perché le specie non autoctone, come ad esempio l’eucalipto, richiedono maggiori quantità di acqua, 1,4 trilioni di litri in più l’anno, rispetto alle piante autoctone. Questa perdita equivale al 4% dell’approvvigionamento idrico della nazione e, poiché le specie aliene si stanno diffondendo molto rapidamente, la perdita potrebbe quadruplicare fino al 16% (WWF-SA, 2016).
Allo stesso tempo, il paese presenta tassi di disoccupazione molto elevati, rendendo possibile la mobilitazione di numerose persone alla risoluzione di questo problema. Il governo sudafricano, a partire dal 1995, ha infatti implementato con successo il programma Working for Water (WfW), guidato dal Dipartimento dell’Ambiente in coordinamento con diverse organizzazioni del settore pubblico e della società civile (WWF, 2019).
Vengono offerti contratti di lavoro finalizzati a rimuovere le specie invasive dai principali bacini idrici, aumentando così la disponibilità di acqua potabile (ILO, 2018). Finora, sono stati ripristinati oltre 1 milione di ettari, fornendo oltre 50 milioni di metri cubi di acqua all’anno e sostenendo più di 20.000 posti di lavoro (ILO, 2018; WWF, 2019b). Grazie ai risultati ottenuti, ad oggi ci sono più di 300 progetti WfW in tutte e nove le province del Sud Africa (WWF, 2019).
Inoltre, l’approccio WfW è stato integrato in numerosi altri programmi di sostentamento del governo sudafricano, basati sempre sulle NBS come Working for Wetlands, Working for the Coast e Working on Fire. La creazione di posti di lavoro per le parti sociali più svantaggiate, come le donne, i giovani e le persone con disabilità rimane uno dei cardini di questi programmi. Nell’anno finanziario 2019-2020 sono stati creati più di 60.000 posti di lavoro, di cui oltre il 70% è andato ai giovani, il 55% alle donne e l’1,5% alle persone con disabilità (DPW, 2020).
ph. © Enrico Rainero
Water to Food: acqua consumata da ogni alimento. Watertofood.org: la sezione del sito Play with Data permette a chiunque voglia saperlo di scoprire l’impronta idrica che rimane impressa nel mondo per la produzione dei singoli alimenti
Quanta acqua serve per produrre i chicchi di caffè che finiscono in una sola tazzina?
E per un piatto di pasta o una semplice mela?
Oggi è possibile saperlo con un semplice click grazie al progetto del Politecnico di Torino “Water To Food”: un progetto di comunicazione di dati e informazioni sull’impatto che la produzione e il commercio internazionale di cibo hanno sulle risorse idriche mondiali e locali. Nato dal progetto di ricerca europeo Coping with WAter Scarcity In a globalized world, CWASI, coordinato da Francesco Laio docente presso il Dipartimento di Ingegneria per l’ambiente, il territorio e le infrastrutture del Politecnico, Water to Food nasce durante il lockdown da un’idea delle tre giovani ricercatrici Benedetta Falsetti, Carla Sciarra e Marta Tuninetti che nell’ultimo anno hanno lavorato al fianco di un team di esperti in comunicazione digitale.
Water to Food ha l’obiettivo di mettere a disposizione della società i dati riguardanti l’acqua virtuale contenuta nel cibo che si consuma, ovvero l’acqua che, prelevata da una nazione per coltivare e lavorare un determinato bene, si sposta con esso dal posto di produzione al posto di consumo.
Questi dati, prodotti negli anni dalla squadra di ricercatori e ricercatrici del progetto CWASI , sono oggi facilmente accessibili e leggibili da chiunque voglia informarsi sul tema, magari proprio nel momento in cui è tra i corridoi del supermercato e sta decidendo cosa comprare: basta collegarsi al sito watertofood.org e accedere alla sezione Play with data, e controllare il valore della “water footprint” l’impronta idrica del prodotto, analizzando le differenze tra i posti diversi di produzione.
Si può scoprire che per produrre un chilo di caffè etiope servono più di undicimila litri di acqua e che l’Italia importa dall’Etiopia circa 95 milioni di metri cubi di acqua proprio sotto forma di chicchi da tostare.
Per la pasta: tra i vari stati da cui proviene il grano, l’Italia importa da Russia, Australia, Stati Uniti e Canada, stato da cui importa più di un miliardo di metri cubi di acqua virtuale. Considerando che il Lago di Garda ha un volume di circa 50 chilometri cubi, si stima che il volume totale di acqua virtuale che l’Italia importa sotto forma di cibo nel corso di un anno sia circa 1750 chilometri cubi (secondo una stima fatta per l’anno 2016), volume che corrisponde a circa 35 volte il volume, appunto, del lago di Garda.
“Water to Food è pensato proprio per chi, essendo curioso e attento su questi temi e volenteroso di ridurre l’impatto sulle risorse idriche della sua dieta, possa accedere in maniera rapida e facile ad un vasto database di informazioni, che possono aiutare nella scelta degli acquisti e promuovendo così un consumo di acqua più sostenibile– spiegano dal gruppo di lavoro – Per raggiungere il nostro obiettivo di comunicare i risultati della nostra ricerca, abbiamo anche prodotto un libro di infografiche e informazioni utili alla società, presto consultabile sul sito Water to Food e un video esplicativo della ricerca e dei suoi concetti chiave. Ci piacerebbe che questo portale, ricco di tante informazioni, diventi un punto di riferimento per tutti gli interessati e per altri ricercatori per creare sinergie di lavoro”.
Irresponsible antimicrobial use in meat supply chains, threatening public health. A study of the ten largest animal health companies by the $38 trillion-backed FAIRR Initiative finds that none of ten leading animal health companies including Elanco, Phibro and Zoetis have adopted a comprehensive policy for tackling antimicrobial resistance (AMR) that is consistent across markets and supports improved supply chain transparency, manufacturing standards, responsible marketing and use of antimicrobials in animal agriculture.
FAIRR’s research examines the $47 billion animal health industry which manufactures and sells antimicrobial treatments for the animal agriculture sector, that supplies supermarkets and restaurants with meat products. It criticises the sector for a lack of transparency from factories to sales to farm-use, and finds that current sales and marketing practices are fueling irresponsible antimicrobial use in animal protein supply chains.
Antimicrobial Resistance (AMR) is the emergence of superbugs (bacteria, viruses, fungi and parasites) that are resistant to antibiotics. An AMR crisis threatens to make even routine operations like hip replacements or caesarian sections life-threatening because we may no longer have effective antibiotics available. In 2018, an estimated half a million people worldwide fell ill with a form of tuberculosis that became resistant to one of its most effective drug treatments, Rifampicin.
The growing threat of AMR is largely due to the inappropriate overuse of antimicrobials, the majority of which are currently used in livestock farming to compensate for poor living conditions where disease outbreaks are difficult to control. Currently, an estimated 70% of global antimicrobial use occurs in animal agriculture.
Antimicrobial-resistant bacteria originating in animals can be transmitted to humans through the environment, food products, or direct contact – making antibiotics stewardship in food supply chains an absolute necessity and an urgent human health issue.
Shared-class antibiotics
Animal health companies continue to sell shared-class antibiotics for use in livestock. In the US, 65% of antibiotics considered important to human health — such as penicillin and tetracycline — are sold for use in livestock.
The biggest concern is that these shared-class antibiotics are being used routinely for non-therapeutic purposes such as growth promotion and prophylaxis, and the long duration and lower dosages of use increases the chance of resistant bacteria developing. In the US, Switzerland and the EU the use of shared-class antibiotics for these purposes is restricted. But in emerging markets, non-therapeutic usage of shared-class antibiotics is more common as there is less regulation, and enforcement of regulation, where it exists, is weaker. For instance, FAIRR finds evidence that two animal health firms, Jinhe Technology (China) and Zydus Cadila (India) sell a number of shared-class antibiotics including Tylosin, Amoxicillin and Levofloxacin, often in large quantities which promotes unnecessary and excessive use of vitally important human treatments.
Marketing matters
Of the ten companies analysed by FAIRR, none has a policy on responsibly marketing antimicrobials for use in animal agriculture.
Product labelling has a significant influence on how farmers administer antibiotics to their animals. In particular, by labelling products for ‘growth promotion’ and ‘routine prophylaxis’ animal health companies are propagating the misuse of these critical drugs.
Moreover, in emerging markets, product labels can be farmers’ only guide to correct usage, dosage, method of application, and expiry date as they often lack access to veterinarians. Use for prophylaxis can account for as much as 84% of total antibiotic use in animal agriculture in areas such as the Mekong Delta region of Vietnam[vii], while in China, use for growth promotion accounted for an estimated 53% of total usage of antibiotics in food producing animals in 2018.
For example:
– 2019, US animal health firm Zoetis announced that it would remove growth promotion messaging from products containing medically important antibiotics. However, the report cites evidence that the company does still label some products for growth promotion in at least one country in Latin America.
– Zydus Cadila, an animal health firm based in India, sells a product called Winmyco, which contains a highest-priority critically important antibiotic for human health, Tylosin. The product is being promoted for growth purposes in India, despite a severe threat of AMR in humans as a result of its overuse.
Without a consistent global approach to labeling, marketing, product sizing, animal health companies’ practices are driving a widespread use of antimicrobials in meat supply chains that comes at a potentially deadly cost to human health.
Environmental risks
The study also highlights that waste from the manufacture of antimicrobials is polluting environments and increasing the risk of antibiotic-resistant genes spreading to humans through waterways and soils. A recent study found that at least two thirds of the world’s waterways contain unsafe levels of antibiotics[ix]. For example, the Danube in Austria has been found to have four times the safe levels of antibiotics, while in Bangladesh concentration levels have been found at 300 times safe levels.
Current animal health manufacturing practices set few or no restrictions on concentrations of antimicrobials discharged in waste streams. At the recent G7 meeting on AMR, global health ministers specifically called on the urgent need to address the manufacturing industry’s waste management practices and their potential contribution to the proliferation of AMR.
Lobbying on the rise
Multi-lateral commitments, national regulations and detailed labelling on antibiotics have made some progress, but these measures have been matched by a notable increase in lobbying expenditure. In the EU and US alone, spending has nearly doubled from 2015-2019. FAIRR was unable to track lobbying spend in emerging markets but found evidence that some companies may be lobbying against strengthened regulation, putting lives at risk.
Risky business: ionophores
The study finds that a lack of regulation is leading to the wide use of ‘ionophores’ which can contribute to AMR. Ionophores are antimicrobials that are classed as antibiotics by the US FDA but not by the EU. This means that some meat classed as ‘raised without antibiotics’ (RWA) can include ionophores, potentially undermining global attempts to tackle AMR.
The use of medically important antibiotics in UK poultry farming dropped by 80% from 2012 to 2017, but the use of ionophores grew by 30%. In fact, in 2020, animal health giant Elanco reported that 85% of its revenue from animal-only antimicrobials came from ionophore sales.
There is evidence that ionophores could be important in human medicine against widely resistant bacteria, and so they must be administered responsibly to reduce the risk of AMR. In addition, their environmental toxicity raises concerns about residues in food and the environment — impacting humans, wildlife, soil and aquatic organisms.
“The silent pandemic” of AMR
This year, the G7 committed to working together to “curb the silent pandemic of antimicrobial resistance” and is exploring market incentives to bring new antimicrobials to market and improve antimicrobial stewardship. For animal health companies with exposure to antimicrobials, this commitment will likely accelerate existing regulatory pressures and scrutiny from investors and consumers alike.
FAIRR’s research offers a roadmap for animal health companies and their investors to reduce AMR risk. The study finds that five of the ten companies assessed already have a ‘high exposure’ to alternative treatment options and many forward-thinking animal health companies are already reducing their exposure to antibiotics by diversifying into alternatives such as diagnostic tools, vaccines, and novel treatments. Investors are invited to participate in FAIRR’s upcoming formal engagement with the sector to ask for robust action on AMR.
Jeremy Coller, Chair of FAIRR and CIO of Coller Capital said: “Antibiotic overuse is a pandemic accelerator hidden in plain sight. An estimated 70% of antibiotics are used in farmed animals, so both Pharma and farmer have a responsibility to reduce antibiotics in meat supply chains. But the animal health sector is failing to live up to its responsibilities to manage the risks we all face from antibiotic resistance. We have to ask ourselves: can the antibiotic crisis be solved without the cooperation of the $47bn animal health sector? Since 2016, over 70 investors worth $5.5 trillion have successfully engaged with global restaurant chains to limit the use of antibiotics in their global supply chains. Now FAIRR is looking beyond restaurants to look directly at the animal pharma sector and its role in AMR. It’s absolutely necessary for animal pharma to improve its antibiotics stewardship. FAIRR has invited investors to participate in its upcoming formal engagement with these companies to ask for robust action on antibiotic investment risk.”
Prof. Dr. Thomas Van Boeckel, ETH Zürich said: “The expanding use of antimicrobials in livestock, a consequence of growing global demand for animal protein, is of serious concern in light of the threat of antimicrobial resistance. An effective policy response including restrictive regulations on antimicrobial use and user fees could reduce the use of antimicrobials in food animals by up to 60% by 2030 compared with a business-as-usual target (BAU) of continued growth of the livestock sector. But currently, a lack of transparency or consistent global regulation is standing in the way of improved antibiotic stewardship in our food system. Any effort to safeguard against AMR will require the cooperation of policymakers, investors, farmers and animal health firms around the globe – as well as profound changes in hygiene standards and medication for intensively farmed animals.“
Professor Dame Sally Davies, UK Special Envoy on AMR, said: “Effective antibiotics are a critical infrastructure for health systems and food systems – and both are connected. Yet the system for marketing antibiotics is broken, risking the irreversible rise of the AMR pandemic, with knock-on effects for poverty, hunger and global security. To build forward from COVID-19 – to sustainable, effective and accessible treatments, we need innovation right across the value and supply chain. We also must address the risks posed by treating animals with antibiotics that are medically important to humans. FAIRR’s report demonstrates the opportunities for companies and consumers of ensuring that prudent antimicrobial use becomes the social and economic norm.”
Emma Berntman, Engager for EOS at Federated Hermes, said: “Our global medicine cabinet is running low. A pandemic, a lack of investment into new antibiotics and growing resistance mean we’re running out of options for treating the infections of the future. This has wide-ranging implications for sectors from farming to pharmaceuticals to food. Now is the time for leadership from investors in the fight to prevent the spread of superbugs and safeguard against a public health crisis that could cost the global economy more than a trillion dollars by 2050. We need robust investor engagement with the animal health sector on its exposure to AMR risks, policies to reduce prophylactic sales given incoming regulation and forward-looking research into alternative solutions such as vaccines and diagnostic technology. This isn’t tomorrow’s problem, it’s an urgent challenge for the financial community of today.”
About FAIRR
The FAIRR Initiative is a collaborative investor network, founded by Jeremy Coller, with a membership of $38 trillion assets under management. FAIRR works with institutional investors to define the material ESG issues linked to intensive livestock and fish farming systems and provide them with the tools necessary to integrate this information into their asset stewardship and investment decisions. This includes the Coller FAIRR Index, the world’s first comprehensive assessment of the largest global animal protein companies on environmental, social and governance issues.
ph. © Enrico Rainero
Commissione Europea apre a OGM. Slow Food è seriamente preoccupata dalle conclusioni dello studio commissionato alla Commissione europea sulle “nuove tecniche genomiche” (NGT), che di fatto apre le porte alla deregolamentazione di nuovi OGM, ignorando il principio di precauzione.
“Con il Green Deal e la strategia Farm to Fork, la Commissione europea si è impegnata ad accelerare la transizione verso un sistema alimentare veramente sostenibile. Proponendo adesso di rivedere le regole in materia di OGM, la Commissione decide di non investire in sistemi agroecologici che portano benefici agli agricoltori, alle comunità locali e all’ambiente”, afferma Marta Messa, direttore di Slow Food Europa. “Ancora una volta, quindi, vediamo prevalere gli interessi dell’agroindustria a discapito di un’agricoltura rispettosa dell’ambiente e della libertà dei contadini di piccola scala di decidere in materia di sementi”.
La presa di posizione di Slow Food
Nel 2018, la Corte di giustizia europea aveva stabilito che l’esclusione dei nuovi OGM dalla direttiva Ue sugli OGM “comprometterebbe l’obiettivo di protezione perseguito dalla direttiva e non rispetterebbe il principio di precauzione che essa cerca di attuare”.
La Commissione europea sta ora pericolosamente contestando la sentenza.
Se i nuovi OGM non saranno sottoposti a test di sicurezza, si determinerà un vuoto nella tracciabilità ed etichettatura, e questa è una notizia preoccupante per i cittadini europei, che potrebbero ritrovarsi nel piatto i nuovi OGM senza informazioni in etichetta e senza esercitare il proprio diritto a scegliere, e per gli agricoltori e gli allevatori, per i quali garantire nuovi alimenti senza OGM diventerà sempre più difficile e costoso.
I nuovi OGM potrebbero essere potenzialmente dannosi per l’ambiente e la sovranità alimentare dei piccoli agricoltori.
Senza una regolamentazione rigorosa potrebbero verificarsi gravi danni agli ecosistemi e alla biodiversità, poiché non si potrebbero prendere misure contro la diffusione incontrollata di nuovi organismi OGM nell’ambiente.
L’agricoltura e la produzione alimentare che si basano su fonti prive di OGM non potrebbero più essere protette.
“La strategia Farm to Fork ha inteso rafforzare molto il ruolo dell’agroecologia per una vera transizione ecologica e l’apertura ad una tecnologia genetica che pone infiniti dubbi non sembra oggi coerente con gli auspici di poco meno di un anno fa. Inoltre, la strategia mira a fornire ai consumatori una migliore informazione in modo che i cittadini possano fare scelte consapevoli e contribuire alla transizione verso sistemi alimentari più sostenibili.
Deregolamentare i nuovi OGM significherebbe che questi non avrebbero più l’obbligo di essere etichettati, in completa contraddizione con gli obiettivi della strategia Farm to Fork. Esortiamo gli Stati membri a difendere il principio di precauzione, la sicurezza dei cittadini, la libertà di scelta degli agricoltori e la biodiversità”, conclude Messa.
Un po’ di storia
La tecnologia dell’ingegneria genetica si è evoluta dall’introduzione delle prime colture geneticamente modificate (GM) più di 20 anni fa.
È emerso un insieme di nuove tecniche GM che gli scienziati chiamano collettivamente “editing genetico”.
Il gene editing permette agli ingegneri genetici di modificare i geni esistenti piuttosto che aggiungere geni da altre specie.
Queste nuove tecnologie sono anche chiamate “new breeding techniques” dall’industria agro biotecnologica, “innovative tecniche genomiche” dal Consiglio dell’Ue o “nuove tecniche genomiche” dalla Commissione europea.
Slow Food chiama queste nuove tecniche di ingegneria genetica “nuovi OGM” poiché, secondo la sentenza della Corte di giustizia europea, si tratta legalmente e tecnicamente di tecniche di modificazione genetica, e quindi presentano gli stessi rischi.
Nel 2018, la Corte di giustizia europea (CGUE) ha stabilito che i nuovi OGM devono essere regolamentati come OGM secondo i regolamenti dell’Ue, quindi seguendo il principio di precauzione.
La sentenza della Corte di giustizia europea significa che la nuova generazione di colture e semi GM deve passare attraverso controlli di sicurezza, un processo di autorizzazione ed essere etichettata prima di essere immessa sul mercato, per garantire agli agricoltori, ai produttori di cibo e ai consumatori il diritto di sapere se un prodotto alimentare contiene organismi GM o meno.
Slow Food ha da tempo una posizione contraria agli OGM per i rischi che presentano per la biodiversità, per le minacce che pongono ai mezzi di sussistenza degli agricoltori locali e per il fatto che sono incompatibili con un sistema agricolo basato sull’agroecologia.
Inoltre, i prodotti delle tecniche genomiche sono coperti da brevetti di proprietà di una manciata di multinazionali.
I brevetti sulle sementi hanno conseguenze economiche negative per il settore agricolo, compresa la monopolizzazione e la concentrazione del mercato delle sementi.
L’agricoltura GM favorisce lo sviluppo di monocolture intensive, ponendo una crescente minaccia alla sopravvivenza delle sementi tradizionali e delle stesse comunità rurali, che sono sempre più private dei loro mezzi di produzione e di sostentamento.
L’UE deve attuare pienamente la sentenza della Corte di giustizia europea del 2018 e garantire che i nuovi OGM siano soggetti ai controlli di sicurezza di base e ai requisiti di autorizzazione.
Il 30 marzo 2021 è stata inviata una lettera al vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans nella quale si mette in guardia dai rischi della deregolamentazione dei nuovi OGM.
Cosa dice lo studio della Commissione?
Il 29 aprile la Commissione europea ha pubblicato il suo atteso studio sulle nuove tecniche genomiche , richiesto dal Consiglio dell’UE nel novembre 2019. Lo studio conclude che:
– “I prodotti NGT e le loro applicazioni potrebbero fornire benefici alla società dell’Ue e affrontare importanti sfide” tra cui “la resilienza e la sostenibilità nel sistema agroalimentare”;
– Per permettere ai nuovi OGM di contribuire alla sostenibilità, “dovrebbe essere previsto un meccanismo appropriato per valutare i loro benefici”;
– Le attuali regole dell’Ue sugli OGM non sono adatte allo scopo.
Lo studio conclude che è necessaria una nuova politica che regoli i nuovi OGM.
Questo è profondamente preoccupante in quanto implica che la Commissione sta cercando di indebolire i principi che attualmente regolano gli OGM e l’editing genetico.
Il commissario Stella Kyriakides, capo del dipartimento Salute dell’Ue, afferma che “le nuove tecniche genomiche possono promuovere la sostenibilità della produzione agricola, in linea con gli obiettivi della nostra strategia Farm to Fork”.
Decarbonise EU shipping. 7% of the EU’s shipping fuels need to be green by 2030 for the sector to decarbonise by mid-century [1], a new study shows. Modelling by Transport & Environment (T&E) points to a clear path which involves modest deployments of e-fuels combined with efficiency measures such as wind-assist and speed optimisation.
Faig Abbasov, shipping director at T&E, said: “If EU shipping is to play its part in rapidly cutting global emissions, it should act now. Only a combination of energy efficiency improvements and zero-emission vessels will get us there. Our analysis shows that even modest deployments this decade can put a sector resistant to change on the right track. The EU should mandate 7% electrofuel deployment by 2030 for all EU shipping as an ambitious but realistic way to fully decarbonise by 2050.”
Up to a third of emissions could be cut in 2050 through improved efficiency alone. But this will not be enough to decarbonise the sector, said T&E. If the industry is to cut emissions further it will need to transition to e-ammonia and e-hydrogen which are currently the cheapest green fuel options.
Both could reach up to 7% of the EU shipping fuel mix by 2030 which, the study shows, would give producers the kickstart they need to make enough of the fuels in the coming decades. It would take, for example, the equivalent of 120 of the largest container ships [2] to consume that amount of e-ammonia (4.6 million tonnes).
For comparison, the equivalent of at least 130 new natural gas-powered vessels of the same capacity will be deployed in the next three years alone.
The EU should mandate 7% e-fuels by 2030 as part of the forthcoming FuelEU maritime legislation, said T&E.
[1] 7% of fuels in the high energy efficiency measures scenario. Without energy efficiency measures the equivalent amount of green fuels would be 5%.
[2] Calculation based on the average fuel consumption of >14,500 TEU ships in the MRV fleet.
Sostenibilità pesticidi? Slow Food: possiamo davvero parlare di uso sostenibile dei pesticidi? La consultazione europea rappresenta l’ultima possibilità per chiedere l’introduzione di regole vincolanti
L’Unione europea ha cominciato la revisione della Direttiva sull’uso sostenibile dei pesticidi (SUD), scritta nel lontano 2009 per regolare l’uso dei pesticidi. «La revisione di questa direttiva rappresenta la migliore, per non dire l’unica, opportunità di indicare obiettivi vincolanti per la riduzione dell’uso di pesticidi chimici», spiega Marta Messa, direttore di Slow Food in Europa.
Ogni Stato membro è tenuto ad accogliere la direttiva mettendo a punto un Piano d’azione nazionale (Pan) della durata di cinque anni: quello italiano, elaborato nel 2014 (e quelli di molti altri paesi europei, in verità) non ha però recepito in maniera sufficiente le intenzioni della Commissione.
Un dato in particolare condanna l’Italia: nel 2017, nel nostro paese, su ogni ettaro di suolo agricolo erano stati versati in media 6,1 kg di pesticidi, per un totale di 56.641 tonnellate.
Francia e Spagna, in media, ne consumano la metà (3,6 kg per ettaro), la Germania non supera i 4 kg.
«Il Green Deal europeo, e nello specifico la strategia Farm to Fork, intendono ridurre del 50% l’impiego e il rischio dei pesticidi chimici in genere e l’uso dei pesticidi più nocivi entro il 2030. Non dovremmo tuttavia ignorare la richiesta delle quasi 500.000 persone che in questi mesi hanno firmato l’Iniziativa dei cittadini europei Salviamo api e agricoltori, chiedendo a gran voce la riduzione dell’80% dell’uso di pesticidi entro il 2030 e la totale eliminazione entro il 2035», continua Messa.
Per raggiungere questo risultato è fondamentale fissare limiti per ogni Stato, migliorare la raccolta dei dati sull’uso dei pesticidi da parte degli agricoltori, promuovendo l’agroecologia e l’adozione di alternative ai pesticidi sintetici.
A questo proposito, «Slow Food sottolinea l’importanza di limitare il più possibile l’impiego dei pesticidi, a partire dall’abolizione del loro uso preventivo, in agricoltura ma anche nel giardinaggio e nella silvicoltura. Le pratiche di Gestione integrata delle specie infestanti (IPM – Integrated Pest Management) devono diventare obbligatorie per gli agricoltori, che così possono sostenere la transizione verso l’agroecologia e incoraggiare sistemi di gestione volti a ristabilire la simbiosi tra api e agricoltura. Naturalmente le alternative ai pesticidi non devono includere Ogm, che perpetuano un modello di produzione agricola basato sulle monocolture e sull’agricoltura industriale, mettendo a rischio la biodiversità e la sovranità degli agricoltori.
L’Europa ha bisogno di sistemi alimentari agroecologici diversificati, basati sulla biodiversità e con sempre minore dipendenza da input esterni, favorendo invece il rafforzamento di comunità sul territorio. Così riusciremo finalmente ad aiutare gli agricoltori ad adottare pratiche agricole più rispettose delle api e della natura», conclude Messa.
I prossimi anni saranno cruciali per iniziare a cambiare la nostra agricoltura al fine di raggiungere gli obiettivi del Green Deal.